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Olio extravergine di oliva negli USA: falso o vero Made in Italy?

Fonte: Sicurezza alimentare e produttiva
Data: 13/02/2014


Un suicidio in piena regola: con tanto di minaccioso simbolo-fumetto simile alla “Jolly Roger” dei pirati: è quello che starebbe accadendo all’olio extravergine “italiano” negli USA. La ricostruzione fatta dalla sezione “Food Chains” (filiere alimentari) del New York Times è impietosa. E punta il dito nella stessa direzione indicata da almeno 15 anni da Coldiretti. Serve cioè più trasparenza sulla reale origine dell’extravergine. E una legislazione di maggiore tutela per i consumatori. Ma se è difficile in Italia, figuriamoci sui mercati esteri. La notizia però buona è che se solo si riuscisse a recuperare almeno una parte dei 60 miliardi di cibo “italian sounding” nel mondo, la filiera agroalimentare italiana potrebbe risolvere molti dei suoi problemi di redditività.

Il reportage

Negli USA si vende olio derivante da olive di varia provenienza-magari fabbricato e imbottigliato in Italia- sotto la menzione “Made in Italy”. Un rapporto del New York Times, sottolinea con toni scandalizzati come effettivamente i consumatori americani siano ingannati da questa pratica, conferendo al prodotto un appeal e una desiderabilità che non avrebbe, semmai si sapesse cosa realmente è.
Il caso è assolutamente interessante. Da una parte infatti vige in Europa una normativa assai precisa, relativa proprio alla commercializzazione dell’olio extravergine di oliva. Che richiede obbligatoriamente di indicare la provenienza delle olive secondo format stabiliti (ad esempio, “olio extravergine di oliva ottenuto da olive coltivate e frante in Italia”, oppure: “olio extravergine di oliva ottenuto da olive coltivate e frante nella UE”, etc). Quel che è certo, è che se si intende indicare e fare quindi una menzione allo Stato, questo implica un riferimento all’origine agricola delle olive. Tale normativa -il reg. 182/2009-, consolidato dal Reg. 29/2012, fa riferimento a disposizioni che avevano cominciato a profilarsi nel 2002: con il Regolamento 1019. Laddove si cominciava a sottolineare l’importanza della indicazione dell’origine geografica delle olive, in ragione di diverse caratteristiche organolettiche attribuite all’olio.
E’ del resto (finora, in attesa di indicazioni più precise entro il complesso Reg. 1169/2011) uno dei pochi casi su scala europea (insieme alla carne bovina, uova, frutta e verdura e al miele) in cui la commercializzazione di un prodotto agroalimentare europeo richiede di indicare con precisione l’origine della materia prima agricola.

Doppia frode


Ma come si configura il caso americano? Intanto vi sono due aspetti da considerare: uno relativo alla vera e propria frode merceologica (olio di semi rettificato venduto come extravergine, dopo aver aggiunto clorofilla ). In tal caso, la frode è reale e legalmente perseguibile. In base ad una prima ricostruzione, tale frode è prevalente negli USA, dove il 69% dell'olio extravergine sembrerebbe in realtà adulterato. Dopo le critiche, il New York Times ha rivisto tale stima, ma si continua a considerarla pervasiva.
Ma vi è un secondo aspetto forse più interessante. E che genera una domanda:i produttori di olio extravergine che non vendono il prodotto in Europa sono tenuti a seguire le stesse norme UE, in quanto gli stabilimenti sono qui presenti? Oppure le norme di commercializzazione, intese a tutelare i consumatori europei, possono non riguardare quelli USA; laddove piuttosto si applicherebbe il consueto “Codice Doganale”, quello che prevede che il paese di provenienza di un prodotto agroalimentare sia di prassi quello in cui è stata compiuta l’ultima trasformazione sostanziale? Il quesito non è da poco. Anche se la prassi è comunque ingannevole (e quindi assolutamente non desiderabile), in quanto i consumatori USA attribuiscono al prodotto una origine (delle olive) italiana, non è così chiaro se sia frode indicare con “Made in Italy” su un mercato extra- UE l’olio extravergine di oliva.
“Made in Italy”? Frode bella e buona: serve l’origine delle olive
Quel che è certo è che su un numero sempre maggiore di prodotti, se si considera la prospettiva del consumatore estero- “Made in Italy” vuole significare prodotto con ingredienti italiani. E i consumatori di oltreoceano non a caso si sentono derubati se scoprono che hanno pagato per altro –magari anche cose preziose e nobilissime, come una ricetta o un savoir faire, frutto di conoscenza tacita e processi industriali-ma che sono un’ altra cosa rispetto al cibo italiano (sarebbe più corretto dire “lavorazione italiana”).
In base alle norme doganali USA, l’indicazione dell’origine si applica non solo al food ma alle varie categorie merceologiche: e sempre considerando il luogo di ultima trasformazione sostanziale. Tuttavia, come chiarito diversi anni fa con un pronunciamento da parte della dogana USA, nel caso dell’olio extravergine di oliva non basta la miscelazione-imbottigliamento “Italiano” per conferire il “made in Italy”, ma tutt’al più servirà per un meno nobilitante “packed in Italy”, con obbligo di parallela indicazione dell’origine degli oli-olive.

Passi avanti in Europa

Intanto la Commissione Europea ha approvato lo scorso dicembre modifiche al regolamento n. 2568/91 per la prevenzione delle frodi nel settore oleicolo.Con decremento graduale dei limiti di etili esteri consentiti: 40 mg/Kg per la campagna 2013/2014, 35 mg/kg per quella 2014/2015 per arrivare a 30mg/kg nelle campagne successive. Questa norma va peraltro nella direzione auspicata dall’Italia, che nel Decreto Sviluppo 2013 chiedeva proprio un abbassamento degli aclhil esteri fino a 30 mg/kg, con controlli aggiuntivi in caso di sforamento di tali limiti. Un extravergine di qualità ordinaria prodotto in Italia infatti si aggira sui 10 mg al massimo. Valori superiori diventano perciò fortemente indicativi di frode.